Degli Strati. 

Un racconto fotografico sul e nel museo

Narrare per immagini le collezioni del Museo. Valorizzare, mostrare, contaminare.

Organizzato da 

COMUNE DI AURONZO DI CADORE

 

In collaborazione con

MAGNIFICA COMUNITA' DI CADORE

 

Curatela di 

TULLIA ZANELLA

Info

Aperto tutti i giorni

10.00 – 12.30 / 15.30 – 19.00

 

Museo di Palazzo Corte Metto

Via D. Alighieri, 4

32041 – Auronzo di Cadore (BL)

Una storia fatta a strati

Il Museo di Palazzo Corte Metto è un museo che racconta il territorio attraverso tre nuclei di collezioni: 

  • Sezione naturalistica (flora e fauna)
  • Sezione archeologica
  • Sezione mineralogica

 

Il lavoro di Enrico è stato quello di studiare gli oggetti appartenenti alle collezioni, analizzarne le qualità estetiche ma anche funzionali, e visitare, macchina fotografica alla mano, i luoghi da cui tali oggetti provengono. Il risultato sono composizioni fotografiche che collegano tra loro le collezioni, i luoghi, la struttura stessa del museo. 

 

Il concetto chiave su cui ruota tutto il processo è quello dello strato, della stratificazione intesa come sovrapposizione sia fisica che temporale. 

A strati è il terreno su cui si scava per rinvenire i reperti archeologici, a strati è la composizione di rocce, minerali e montagne, a strati è l'organizzazione delle collezioni all'interno del museo, suddivisa tra i vari piani, a strati è la concezione di una sedimentazione continua di memoria, storia e tempo. 

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 Le opere

Le sezioni

I trittici

Trittico della veduta
Trittico della veduta
Trittico delle cime
Trittico delle cime

Le trasparenze

Perché gli strati?

Audioguida

Cattura

Gli strati del Museo

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Un Museo “Multitematico”: a ogni piano la sua sezione

 

La struttura architettonica del Palazzo è già di per sé concepita a strati, costituita com'è da quattro piani, collegati dalle scale al centro dell'edificio. 

 

Le collezioni, poi, si compongono di tre nuclei diversi, ciascuno dislocata su un piano quasi autonomo, in modo contrario rispetto alla disposizione naturale.

 Gli strati della roccia

La conformazione tipica della roccia dolomitica tende a caratterizzarsi per la sedimentazione: strato dopo strato, il processo orogenetico dà vita alle montagne, elemento caratterizzante del territorio su cui si trova il Museo. 

 Gli strati della storia

L'archeologia ragiona in termini di stratificazione, che non è solo fisica ma prima di tutto temporale. A questa si aggiunge anche la sedimentazione culturale, com'è ben evidente sul Monte Calvario, sito archeologico di epoca preromana, romana e paleocristiana, fino meta del Cristianesimo moderno. 

 Gli strati della narrazione

Anche la comunicazione si organizza per strati, multimediali, per lo più: testi, immagini, audio e video si sovrappongono continuamente nei processi comunicativi. E' il caso, ad esempio, dell'animale, la sua riproduzione fotografica, la sua tassidermia, ma anche dell'immagine della sua immagine, riportata ad esempio su un sito web, o in una composizione fotografica. 

Materiali e risorse

COMUNICATO STAMPA

Degli Strati. Un racconto fotografico sul e nel museo

di Enrico Barbetti

3 agosto – 8 settembre

Museo di Palazzo Corte Metto, Auronzo di Cadore (BL)

 

Il Museo di Palazzo Corte Metto riveste un ruolo importante nella programmazione culturale dell’estate auronzana, in particolare quest’anno, in cui l’Amministrazione Comunale ha posto le collezioni museali al centro di una serie di interventi atti a valorizzarne e rilanciarne la conoscenza al grande pubblico.

Nel solco di questo indirizzo si colloca un evento espositivo organizzato dal Comune di Auronzo, in collaborazione con la Magnifica Comunità di Cadore, e curato da Tullia Zanella, dal titolo: “Degli Strati. Un racconto fotografico sul e nel museo. Di Enrico Barbetti”.

 

Non si tratta di una mostra intesa come esposizione di opere fine a sé stessa, quanto piuttosto di un’operazione di studio e racconto del Museo attraverso le composizioni fotografiche realizzate da Enrico Barbetti, fotografo, con una laurea in Storia dell’Arte e un dottorato in Semiotica dell’Educazione Visiva.

Nel suo lavoro abitualmente Barbetti coniuga formazione, professione e passione per la ricerca: attraverso il mezzo fotografico confeziona delle opere che, a partire da pattern, trame e dettagli - spesso poco significativi - raccontano gli oggetti tramite processi analogici inattesi. Ed è questo il metodo che ha seguito anche in relazione al Corte Metto, dove si è recato per studiarne le collezioni, notoriamente suddivise in nuclei apparentemente eterogenei – flora e fauna al primo piano, archeologia al secondo e mineralogia al quarto – in realtà accomunati dalla provenienza dal territorio auronzano, di cui raccontano ricchezza e complessità. Il risultato sono delle composizioni, a prima vista quasi astratte, che a ben vedere ingrandiscono dettagli e pattern derivanti dagli oggetti esposti, organizzati secondo uno schema basato sulla stratificazione, come il titolo del progetto ricorda. Il concetto chiave attorno a cui ruota tutta l’operazione è infatti quello dello strato: stratigrafia e stratificazione sono i meccanismi alla base del ragionamento archeologico, sia nello scavo e nella ricerca, che nella concezione temporale della storia, come sovrapposizione continua di civiltà, usi e costumi. A strati si dispongono alcuni minerali, e, più in grande alcune stratificazioni sono riconoscibili anche sulle pendici delle montagne che circondano il Museo.

Un racconto sul, del e nel Museo, dunque, che offre ai visitatori uno strumento insolito, che fa da oggetto di osservazione e per certi versi guida alle collezioni museali. Tutta l’operazione favorisce infatti un rinnovato interesse nei confronti del Museo, dal momento che l’esposizione delle opere di Barbetti, concentrata prevalentemente al piano terra, ad accesso gratuito, si snoda poi anche ai piani superiori, in un dialogo e uno scambio continuo con gli oggetti esposti.

Alcuni supporti alla guida, infine, dai QR code alle audioguide, consentono al visitatore un’esperienza più consapevole e accessibile. L’evento espositivo sarà poi corredato da laboratori per bambini e ragazzi, e visite guidate su prenotazione.

Degli strati, dei musei e dei punti di vista

I musei sono sempre stati per me luoghi privilegiati. Durante la mia vita, ho lavorato in musei, li ho studiati, ho svolto ricerche al loro interno e li ho vissuti con passione. Tuttavia, ciò che mi mancava era la possibilità di esplorarli in modo trasversale nella veste di fotografo. Questa opportunità si è concretizzata al Museo Corte Metto, permettendomi di integrare competenze acquisite in vari ambiti: creativo-artistico, ricerca semiotica degli spazi museali e come educatore museale.

Le mie esperienze professionali e accademiche mi hanno insegnato a comprendere come muoversi in un museo, come raccontarlo e come narrare le sue opere. Ho approfondito come i musei creano significato, anche attraverso la nostra interazione con i loro spazi, e come interpretare la narrazione strutturale dei loro ambienti attraverso l'organizzazione delle collezioni. Ho sempre cercato di capire come un museo e i soggetti che lo vivono e lo frequentano possono generare del senso.

Per quanto riguarda il mio percorso fotografico, intervenire sul museo Corte Metto rappresenta una sfida particolarmente interessante.. A differenza dei musei in cui ho lavorato come educatore o ricercatore, che avevano una dimensione prevalentemente temporale e raccontavano un'epoca o un periodo storico, il museo Corte Metto parla di uno spazio, di un territorio. Questo permette di lavorare con continuità rispetto alla mia esperienza fin qui accumulata da fotografo, nella quale mi sono sempre concentrato sulla dimensione narrativa di un luogo, di una città o di un ambiente.

Negli anni, infatti, ho sviluppato una narrazione fotografica che si distacca da un criterio di rappresentazione o di testimonianza, evitando di immortalare gli scorci più conosciuti o nascosti di città quali Venezia, Milano o Lucca. La mia narrazione è invece composta da strutture semplici ma profonde, provenienti da una dimensione culturale e percettiva, e da complessi pattern di superficie raccolti nel luogo indagato: ritagli di muri, pavimenti, strisce pedonali, porte o specchi d’acqua.

Lavorare su un museo come il Corte Metto è stato stimolante perché mi ha permesso non solo di raccontare uno spazio, ma di creare un meta-racconto su un luogo che narra un altro luogo. Questa meta-narrazione, composta da dettagli e pattern, include opere e altri elementi dello spazio museale, ma anche di Auronzo in particolare e del Cadore in generale.

Così, si può iniziare a comprendere il motivo per cui ho deciso di far ruotare questo lavoro attorno al concetto di ‘strati’ e alla nostra relazione con la ‘stratificazione’. Per stratificazione si intende, in termini generici, una sovrapposizione di piani omogenei quanto basta per essere categorizzati, di diverso spessore e importanza, dove l’uno ricopre uniformemente l’altro. Questa definizione è trasversale e si manifesta a diversi livelli del mio lavoro.

In primo luogo, la stratificazione riporta al carattere formale prominente della dimensione geologica delle montagne del Cadore, emblema per antonomasia del territorio e tra i principali oggetti di studio del museo. La sedimentazione, parte essenziale del paesaggio dolomitico, evidenzia la stratificazione come un processo di sedimenti influenzato dai fenomeni orogenetici nel corso del tempo.

In secondo luogo, si è esteso il concetto di stratificazione geologica ad altri processi temporali e spaziali, che caratterizzano il territorio del Cadore tanto quanto la sedimentazione dei depositi marini. In particolare, si è considerata la stratificazione delle diverse culture che hanno influenzato questi luoghi, lasciando tracce culturali e influendo su usi e costumi successivi. Esempio molto forte lo si ritrova, spiegato bene nelle sale del museo, nell’evoluzione culturale e religiosa del Monte Calvario. Si tratta infatti di un luogo che mantiene una memoria spirituale - dal santuario romano alla via crucis cattolica - nonostante l’alternarsi di periodi storici e di credi religiosi.

Questo si manifesta nella contemporaneità in un concetto di stratificazione mediale, un processo continuo e ricorsivo di sedimentazione comunicativa attraverso immagini, testi e audio. Questo processo non riguarda solo oggetti naturali e le rispettive rappresentazioni. Come un animale e le sue riproduzioni fotografiche o tassidermiche. Bensì anche l’immagine dell’immagine, come la mediazione della fotografia di tale animale impagliato attraverso il sito web, i social o nel materiale divulgativo. La contemporaneità aggiunge nuove dimensioni a questo processo sociale di riproduzione, modifica e diffusione di immagini, suoni e testi grazie alle nuove tecnologie.

Infine, l'ultimo elemento su cui si concentra il tema della stratificazione è la strategia narrativa nell'organizzazione degli spazi del Museo Corte Metto. Il museo, costituito dalla forma architettonica del palazzo e dagli interventi museografici, si articola su una successione di piani sovrapposti. Ogni livello è distintamente caratterizzato da specifiche tematiche espositive: il primo piano ospita la flora e la fauna, il secondo l'archeologia, mentre il quarto è dedicato alla geologia.

Il visitatore è guidato in un movimento ascensionale attraverso le diverse sezioni, partendo dal livello più basso che rappresenta la superficie con flora e fauna visibili. Successivamente, passa attraverso le sezioni intermedie – ciò che dovrebbe essere coperto da terra e piante – che mostrano reperti archeologici. Infine, il visitatore raggiunge il livello superiore dedicato alle rocce e ai minerali, elementi che tradizionalmente si trovano più in profondità.

La disposizione spaziale del museo si sviluppa secondo una struttura a sezione, dove gli strati sono chiaramente visibili e identificabili, sebbene la disposizione invertita possa apparire contraria alle aspettative.

La stratificazione si presenta quindi come un fenomeno complesso, caratterizzato da:

  • Qualcosa che giace sopra, copre, protegge, scherma e distorce ciò che sta sotto;
  • Qualcosa che risiede sotto, agisce modificando e determinando la forma di ciò che sta sopra.

Tuttavia, questa configurazione da sola non è sufficiente per comprendere pienamente il significato della stratificazione. Ciò che conferisce senso a un fenomeno così ampio è principalmente un doppio punto di vista possibile dell'osservatore. 

In primo luogo, c'è il tipo di visione in cui l'osservatore guarda il processo da una certa distanza, permettendo di distinguere chiaramente le stratificazioni sovrapposte. Questo è tipico delle prospettive della sezione, del carotaggio e dello spaccato della montagna, dove l'osservatore, esterno e distante, può studiare i livelli in modo dettagliato. Questo approccio riflette un metodo scientifico caratterizzato da una distanza critica sull'oggetto di studio, una prassi comune nei musei come luoghi di ricerca, conservazione e studio. Il Museo Corte Metto esemplifica questo approccio attraverso la sua suddivisione ben delineata degli spazi naturali, archeologici e geologici nei diversi piani.

Nonostante ciò, esiste un altro punto di vista possibile su questo processo. È una prospettiva dove l'osservatore è situato nello spazio-tempo della stratificazione, con il corpo inserito direttamente all'interno del contesto. Questo punto di vista non è frontale come nella sezione, ma posiziona l'osservatore sopra l'ultimo strato con lo sguardo rivolto verso il basso. L'attenzione è focalizzata sulla superficie esterna, che funge da barriera opaca che nasconde o rende meno visibile ciò che sta sotto. Questo limite impedisce di percepire pienamente gli strati inferiori e di comprendere appieno come influenzino e determinino il contesto in cui ci troviamo, presupponendo uno sforzo per scoprire ciò che sta sotto. Questo punto di vista per certi versi può essere rivisto anche nel Museo Corte Metto, laddove, con un movimento speculare, il visitatore scava – salendo le scale e vincendo una resistenza fisica – dallo strato più superficiale fino a quello più profondo.

Questi punti di vista non sono contrapposti. Non si intende privilegiare uno a spese dell'altro, né stabilire un giudizio di valore tra loro. Si tratta piuttosto di approcci complementari che possono e dovrebbero coesistere. È compito dell'osservatore spostarsi fluidamente tra questi due approcci, sfruttando i vantaggi di ciascuno e mitigando le eventuali limitazioni dell'altro. Questa capacità di adottare prospettive diverse consente un'analisi più completa e approfondita del fenomeno della stratificazione e del contesto in cui si manifesta.

L'intento di questo intervento fotografico è quello di attivare e disattivare ora una, ora l'altra di queste prospettive. Non si tratta di favorirne una rispetto all'altra, ma di utilizzare la fotografia come strumento per modificare e ampliare i propri punti di vista. Questo significa non solo variare la posizione del proprio sguardo nello spazio, ma soprattutto concepire l'espansione del punto di vista come un processo di conoscenza del mondo e dei suoi elementi, Cadore incluso.

Inoltre, il fluire tra una visione soggettivata e una oggettivata ci permette di reinserirci consapevolmente nel tessuto più ampio della nostra esperienza del luogo. Attraverso questa pratica, possiamo non solo stabilire connessioni significative con gli oggetti e i concetti presentati nel museo, spesso percepiti come estranei alla nostra vita quotidiana, ma anche riconoscere come i processi di conoscenza e interpretazione che avvengono nei musei possano essere paragonati e integrati con le modalità empiriche e pratiche del nostro vivere quotidiano.

In sintesi, l'approccio oscillante tra questi punti di vista mira a facilitare un movimento reciproco: portare l'interno verso l'esterno e l'esterno verso l'interno. Questo significa, prima di tutto, arricchire la nostra comprensione delle stratificazioni culturali e naturali del territorio, riconoscendole nel nostro vissuto quotidiano. In secondo luogo, implica riconoscere la nostra posizione e il nostro punto di vista all'interno di un ambiente ricco di significato come il museo.

DI STORIE ATTRATTIVE E STORIE PROPULSIVE

Il lavoro di Enrico Barbetti sul, con e per il Museo di Palazzo Corte Metto ricorda molto la callida iunctura di oraziana memoria: anche in questo caso siamo di fronte a un accostamento insolito, inaspettato, e proprio per questo intrigante, curioso e foriero di nuovi stimoli e riflessioni. 

Di per sé il mezzo fotografico e il suo risultato non sono elementi così incongrui per una realtà museale, tuttavia lo diventano nel momento in cui l’esito estetico del processo produce delle opere apparentemente astratte, ma facilmente riconducibili a un contesto, sicuramente originali nel loro insieme. 

Ma procediamo con ordine, e, innanzitutto, consideriamo il luogo e la materia prima su cui Barbetti è stato invitato a lavorare, il Museo di Palazzo Corte Metto. Si tratta di un luogo “multitematico”, come cita il suo stesso nome, che raccoglie nuclei di collezioni tra loro in parte eterogenei: flora e fauna al primo piano, archeologia al secondo e mineralogia al quarto sono infatti accomunati dalla provenienza e dalla capacità di raccontare in maniera sfaccettata e multiforme un territorio, quello cadorino, e in particolare auronzano. 

Come tutte le realtà museali, anche il Palazzo Corte Metto è oggetto delle dinamiche più comuni, per cui, ad esempio, i visitatori mediamente ritengono che una singola visita sia sufficiente e di per sé esaustiva, che una volta visitato un museo, non abbia poi troppo senso tornarci. Oppure ancora, immaginiamo, anche qui il tempo dedicato alla fruizione e all’osservazione delle collezioni è sempre poco, e, magari, pochi sono anche i visitatori che si spendono nella lettura dei pannelli didattici o degli altri supporti al percorso. In generale, insomma, anche in questo museo subentrano i meccanismi tipici della visita e fruizione di questi luoghi: l’invito a Barbetti si inserisce anche da questo punto di vista come una scommessa, dunque, nel tentativo di fornire al museo una serie di opere (di cui l’ente rimarrà proprietario) che ne arricchiscano le collezioni, ma che a loro volta diventino uno strumento per valorizzare e raccontare quanto già presente. 

Un percorso nel percorso, dunque, un lavoro che fornisce una nuova, forse inconsueta, chiave di lettura e che permette, attraverso la fotografia, di offrire al visitatore nuovi punti di vista privilegiati sulle collezioni, e, di conseguenza, nuove prospettive da cui partire e nuove visite da programmare. 

Il modus operandi di Barbetti è il risultato del suo articolato percorso formativo e professionale: allo studio accademico della Storia dell’Arte, Barbetti ha infatti sommato un dottorato in Semiotica, fondendo il tutto con l’approccio pratico di guida museale e formatore. La sua è quindi una visione che tiene insieme l’aspetto teorico, ma anche la sua traduzione per il visitatore non addetto ai lavori, che dalla visita museale intende ricavare un arricchimento profondo, ma anche culturalmente sostenibile e comprensibile. 

Barbetti a questo aggiunge un occhio particolarmente perspicace nel cogliere analogie e differenze, legami e richiami che riesce a identificare innanzitutto nel momento in cui studia le chiavi di lettura da proporre per raccontare un luogo, una collezione, un’opera o qualsiasi sia il soggetto che si trova a trattare. Ciò che coglie, dunque, non sono solo dettagli dal più o meno intrinseco valore estetico, ma anche particolari rilevanti per estrinsecare il meccanismo di osservazione e funzionamento dell’oggetto osservato: guarda per capire, insomma, e osserva nell’ottica di poter poi spiegare quanto appreso.  

Concretamente quello che accade nel corso di questo processo è la creazione di composizioni fotografiche in cui i dettagli e i pattern catturati vengono ingranditi, isolati dal contesto di provenienza, e inseriti in un nuovo schema. Attraverso questo procedimento, il soggetto di partenza viene desemantizzato, tanto che a volte a prima vista risulta difficile riconoscerne l’origine, e risemantizzato alla luce delle scelte operate: ecco che allora la macro di un minerale, per esempio, accostata al dettaglio della pelliccia di un animale, può rivelare qualità estetiche e similitudini che, senza il confronto, non sarebbero potute emergere. Accanto poi alle analogie visive, potrebbero generarsi richiami di senso, come può accadere quando Barbetti affianca il dettaglio di un’iscrizione presente su un reperto archeologico e la sua riproduzione su uno dei pannelli didattici che segnalano il sito di ritrovamento: definito e perfettamente leggibile il primo, pur se molto antico, sgranato e fuori fuoco il secondo, per quanto moderno. 

Viene da sorridere poi di fronte ad alcune scelte che quasi ammiccano all’osservatore, come l’idea di raccogliere nella stessa composizione il piumaggio di un uccello impagliato del primo piano, e il dettaglio di un volatile inciso su una lamina bronzea proveniente dalla sezione archeologica. 

Il risultato di questo processo risulta dunque nella costruzione di connessioni e richiami, che, rimbalzando da un piano all’altro, delineano la trama di una storia, che è nota e inedita allo stesso tempo. Le opere di Barbetti rivestono dunque un ruolo narrativo, oltre che estetico, e non solo in virtù del procedimento che le ha originate, ma anche grazie alle loro caratteristiche compositive e strutturali.

Oltre ai pattern ingranditi, che già di per sé diventano elementi significanti, è infatti anche lo schema che li organizza ad essere rilevante: non è un caso, infatti, che le opere siano strutturate attorno alla diagonale, e che quindi i dettagli vadano a riempire uno spazio orientato diagonalmente. Se è vero, infatti, che la sovrapposizione degli ingrandimenti richiama la stratificazione, come ricorda anche il titolo della mostra, è altrettanto interessante notare come questi strati non siano disposti in orizzontale, come il richiamo alla stratigrafia archeologica, mineraria, ambientale in genere potrebbe suggerire, bensì secondo un andamento diagonale. E, come se non bastasse, anche i trittici riprendono questa scelta, e, anzi, la ribadiscono, al punto che qui le diagonali arrivano a rievocare la forma triangolare, astrazione per antonomasia della montagna. 

Un altro livello, o un altro strato, a cui è possibile leggere l’opera di Barbetti, dunque: la diagonale come linea che per eccellenza richiama il dinamismo, incerta e instabile se comparata con la statica orizzontale o la decisa verticale, suggerisce l’idea del movimento, sia in salita, che in discesa. La diagonale guida dunque lo sguardo dell’osservatore da uno strato all’altro, non già come in un’ipotetica composizione orizzontale, per gradini o balzi, ma attraverso un passaggio graduale e continuo, di ascesa verso l’alto, ma anche di scivolamento verso il basso. E sono proprio questi i due sensi in cui si può percorrere – e ripercorrere – il pendio di una montagna, quasi banalmente l’elemento identitario più forte del territorio da cui gli oggetti delle collezioni museali provengono. 

Una volta quindi creata una struttura di per sé sensata, basata appunto sulla diagonale, i vari riempimenti acquisiscono valore in sé stessi ma anche in relazione agli accostamenti operati, come detto più sopra. In un certo senso, dunque, siamo in presenza di una macro storia, una struttura visivo-narrativa all’interno della quale si incardinano i singoli elementi, i dettagli ingranditi che perdono il loro senso originario per acquisirne uno nuovo. E se l’occhio è in grado di cogliere questi meccanismi in maniera immediata, la parte razionale dell’osservatore richiede ordine e metodo per metabolizzare quanto appreso. Nel processo di fruizione di queste opere, infatti, sono molte le dinamiche che si attivano, anche se tutte, in ultima analisi, rimandano al tema del riconoscimento: i dettagli non si conoscono, a primo impatto, bensì si ri – conoscono dopo aver visitato il Museo, e da quel riconoscimento parte un racconto che può acquisire molti livelli di lettura, a seconda delle disponibilità e delle conoscenze di chi osserva questi lavori. 

Naturalmente anche la sola fruizione estetica, svincolata da qualsiasi conoscenza del Museo, delle collezioni o del territorio, delle opere di Barbetti è in grado di dischiudere sorprese inattese: ci si può ritrovare estasiati di fronte a una trama, pur non sapendo che appartiene a un minerale; si può trovare divertente il gioco di indovinare la provenienza dei dettagli; oppure ancora si può notare come un tono cromatico richiami un altro, ma, se applicato a una superficie diversa, sortisca esiti opposti, dal ruvido al liscio, dall’umido al secco, dal rigido al morbido. Ci si può perdere in queste opere, portati come siamo a infilarci in uno strato per ammirarne i microscopici dettagli, per poi essere letteralmente buttati fuori dallo strato successivo, che invece adotta un punto di vista distante dal soggetto. E’ un dinamismo in & out quello che si attua in questi lavori, e, se in qualche punto la curiosità e il focus ci risucchiano, poco più in là lo zoom out ci respinge, facendoci rimbalzare dentro e fuori, tra continuità e discontinuità percettive alternate e continue. 

Proprio il tema dell’interruzione e della continuazione sembra alla base non solo degli abbinamenti scelti, ma anche degli spazi che intercorrono tra le varie parti dei trittici, che si interrompono con un pattern e riprendono in quello successivo con un dettaglio analogo, eppure diverso. Nella nostra metafora della diagonale-montagna, queste sospensioni sembrano quasi delle pause, delle soste nella salita, per riprendere fiato e capire dove siamo. 

Più che una collezione, quella che Barbetti ha costruito per il Corte Metto è quindi un’operazione di senso, coerente in tutte le sue parti: audio e video corredano infatti le composizioni fotografiche in maniera complementare, andando a ribadire le chiavi di lettura alla base del progetto. 

Un lavoro ricorsivo eppure non autoreferenziale né banale, che parla di altro attraverso sé stesso, che si presenta in trasparenza e a sé stante allo stesso tempo, che ribadisce, richiama, raccoglie, e racconta senza confondere, ma, anzi, con la lucidità necessaria a risalire il pendio di una montagna. 

Una volta in cima, poi, si guarda in basso e si ripercorrono le tappe del sentiero, che in questi lavori diventano gli strati, strati della terra, strati della storia, strati della memoria.

https://www.youtube.com/watch?v=An90J0hEnrs

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